Antonino Lacava

SU UN ASPETTO DELLA LETTERATURA DEL NOVECENTO, PASSANDO DAI CIPRESSI DI BOLGHERI

«… Che generazione c’è da aspettarsi da questa letteratura? annoiata, inetta … stanno riducendo il mondo ad una clinica e ad un ospedale…». Così scriveva l’allora ventenne C arducci, recensendo l’Edmenegarda di Giovanni Prati ed esprimendo la stessa preoccupazione avanzata pochi anni prima da Carlo Tenca, che sulle pagine dalla “Rivista europea” aveva preso le distanze dal romanticismo svenevole e lacrimevole che incominciava ad imperversare nella letteratura italiana. Dichiarando il proprio disappunto per gli effetti civili che avrebbe potuto provocare la letteratura del romanticismo gelatinoso e sentimentaleggiante, si direbbe, oggi, che il poeta maremmano veniva inconsapevolmente a profetizzare e a cercare di contrastare (è dei grandi uomini appartenere al futuro come è dei grandi poeti il profetizzarlo, e, in entrambi i casi, senza farlo apposta ) la strada su cui si sarebbe messa tanta parte della letteratura ufficiale del N ovecento, avendo la stessa imboccato la china aperta da Pascoli e D’Annunzio, con quelle loro pagine che condurranno il Croce a catalogarli, assieme a Fogazzaro, come la “trina bugia”, risultando le stesse scaltrita elaborazione letteraria di una interiorità falsa e lontana dal noto ideale carducciano di poesia alta, solenne, sincera, realistica e classica nello stesso tempo, espressione di forte sentire di un animo virile, sensibile, profondamente complesso, ma sereno.

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