Berardino Palumbo

ORIENTALISMO E TURISMO CULTURALE IN SICILIA

Vorrei iniziare questo mio intervento da una scena sociale – un apparentemente insignificante “social drama” – si potrebbe dire con Victor Turner, l’antropologo britannico al quale si devono gli inizi di un’antropologia del teatro – cui ho potuto assistere, oramai quindici anni fa, all’interno del teatro greco-romano di Taormina. Da poco giunto in Sicilia grazie alla vittoria di un posto da ricercatore nell’Università di Messina, facevo fatica ad adattare la mia quotidianità, fino a quel momento cadenzata dai ritmi non ancora esasperatamente mondano-turistici della suburra romana, alla linearità un po’ monotona e monocorde della Messina dei primi anni Novanta del secolo scorso. Decisi allora di cercare un appartamento a Taormina, perché, in accordo con un’immaginazione che avremo modo di analizzare, pensavo fosse più sensato vivere in un posto bello e, almeno l’inverno, tranquillo. Trasporti pubblici a parte, non mi sono mai pentito di quella scelta, pur temporanea. Nelle giornate più soleggiate, da dicembre a giugno, quando potevo, studiavo e leggevo sulle gradinate del teatro greco. Fu una di quelle mattine di sole che mentre ero assorto non ricordo più in quale etnografia, mi capitò di assistere a questa scena. Qualche gradino sotto di me un gruppo di turisti tedeschi si ferma per ascoltare la spiegazione, in inglese, di una guida. Questi, un uomo intorno ai quarant’anni – bruno, occhi e baffetti scuri – spiega con attenzione e professionalità alcuni aspetti architettonici e strutturali del teatro, ricordando agli ospiti la storia della costruzione e la complessità delle opere di restauro. Poi, rivolgendo lo sguardo a due ragazze del gruppo – decisamente le più avvenenti – conclude dicendo con tono ammiccante (traduco dall’inglese): “Il teatro dunque è greco e latino. È proprio come noi Siciliani (pausa): Romani di giorno e Greci di notte”. Le due ragazze arrossiscono un po’, il resto del gruppo applaude.

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